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La ginestra Leopardi parafrasi

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La ginestra o il fiore del deserto è un poema lirico di Giacomo Leopardi. Leopardi lo scrisse quando si trovava a Napoli, per la precisione a Torre del Greco, quando il vulcano erutto. Il poema pone al centro la bellezza della natura che crea e che distrugge, ma anche il profumo e la fragranza ...

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La ginestra o il fiore del deserto è un poema lirico di Giacomo Leopardi. Leopardi lo scrisse quando si trovava a Napoli, per la precisione a Torre del Greco, quando il vulcano erutto. Il poema pone al centro la bellezza della natura che crea e che distrugge, ma anche il profumo e la fragranza del fiore della ginestra, simbolo di speranza.

Ecco la parafrasi:

Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo (formidabil, latinamente ‘spaventevole’) distruttore (sterminator) monte Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti [mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli].

Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che (par che) [le contrade] con il loro cupo e silenzioso aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero) il grande impero perduto.

Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata (impietrata), che risuona sotto i passi del viandante;

dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio [v.23 allitterazione]; furono [la serie fur…fur…fur…– anafora – sottolinea e oppone alla desolazione il ricordo dello splendore delle città antiche] città opulente (liete nel senso latino) e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, soggiorno gradito all’ozio dei potenti [poiché queste città erano stazioni turistiche]; e furono città famose che il vulcano indomabile, vomitando (fulminando: spargendo lava) torrenti di lava dalla sua bocca di fuoco (ignea) distrusse insieme con i loro abitanti. Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto (involve), là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi compiangendo (commiserando) le altrui miserie, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Venga in questi luoghi colui che suole elogiare (esaltar con lode, esaltare con enfasi, con convinzione cieca) la nostra umana condizione (il nostro stato) e guardi quanto la natura benigna, amorevole (amante, detto con sarcasmo) si curi del genere umano. E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza (possanza) del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta (ov’ei men teme), con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ meno lievi annientare del tutto all’improvviso (subitamente). In questi luoghi (rive) sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (magnifiche sorti e progressive – iperbato – la citazione proviene dalla dedica che il cugino del poeta, Terenzio Mamiani, premetteva agli Inni Sacri).

Qui guarda e ammira rispecchiato te stesso (ti specchia), secolo superbo [perchè pensi di dominare la natura e credi nel progresso] e stolto [perchè non ti rendi conto delle minacce che sovrastano il mondo], che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento (il risorto pensier, che aveva sgombrato tutte le oscurità del medioevo) e, tornato indietro (volti addietro i passi), per di più ti vanti del procedere a ritroso (del ritornar) e lo chiami progresso. Tutti gli uomini d’ingegno, di cui la sorte malvagia (sorte rea) ti rese padre [poiché davvero meritavano di vivere in un secolo migliore] e queste tue manifestazioni di infantile insensatezza (al tuo pargoleggiar), vanno applaudendo la tua follia, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. A me non accadrà di lasciare questa vita macchiato di una simile vergogna [opposizione al conformismo che regna tra gli uomini d’ingegno], ma avrò [prima] mostrato nel modo più esplicito il disprezzo che è chiuso (si serra) nel mio animo verso di te, benché io sappia che chi non piacque [ai propri contemporanei] è destinato alla dimenticanza (preme, latinamente, vale ‘avvolge, ricopre’). Di questo male [cioè l’essere dimenticato], che condivido con te [cioè con il secolo], fin d’ora non mi importa nulla (mi rido). Sogni la libertà (vai sognando, rende l’idea dell’illusione) e nel contempo vuoi servo il pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto è cresciuta la civiltà, che sola guida i destini dei popoli verso il progresso. Tanto ti spiacque la verità relativa alla sorte dolorosa (aspra sorte) e alla condizione miserevole che la natura ci ha dato. Per questo volgesti le spalle al pensiero (lume) che lo rivelò (il fè palese) [l’oggetto è il vero, con allusione in particolare alla filosofia dell’illuminismo – i vv. 80/83 richiamano quanto affermato nella citazione evangelica con cui inizia la lirica] e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e magnanimo colui che esalta fino alle stelle la condizione umana, illudendo se stesso o gli altri e mostrandosi così astuto [se inganna gli altri] o folle [se inganna se stesso].

Un uomo di umile condizione (povero stato) ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte (ricco d’or ne gagliardo) e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e povero (di forza e di tesor mendico) e si dichiara tale apertamente e mostra la sua condizione secondo quello che è in realtà.

Non credo che sia un essere (animale – sineddoche) magnanimo [riprendendo il magnanimo del v.84], ma stolto colui che , nato per morire, cresciuto in mezzo ai dolori (nutrito di pene), dice: sono stato fatto per essere felice (a goder son fatto) e stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e nuove felicità [riprende le magnifiche sorti e progressive del v.51], quali [non solo questa terra] anche il cielo intero ignora, a popoli che un maremoto (un’onda di mar commosso), una pestilenza (un fiato d’aura maligna), un terremoto (un sotterraneo crollo) può distruggere in un modo tale che a stento (a gran pena) rimane il ricordo di essi.

Nobile creatura è [al contrario] quella che ha il coraggio di guardare (a sollevar s’ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino umano (comun fato)e apertamente (con franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; è quella [con richiamo al verso 111, cioè quella natura] che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l’uomo del suo dolore, ma dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea), che è madre dei mortali perchè li ha generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento che riserva loro – v. 125 chiasmo].

Chiama nemica costei [la natura], e pensando che contro costei sia unita, come realmente è (siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo [a seconda delle circostanze] nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri e nelle sofferenze della lotta che li accomuna [di tutti gli esseri umani contro la natura].

E armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un altro uomo (al vicino) [il soggetto è sempre la nobil natura del v.111] sia cosa stolta così come sarebbe sciocco in un campo [di battaglia] circondato da nemici, nel più aspro infuriare degli assalti (in sul più vivo incalzar degli assalti), dimenticandosi dei nemici, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra i commilitoni [l’inimicizia umana fa il gioco del nemico, cioè della natura].

Quando siffatte considerazioni (così fatti pensieri) quando saranno, come furono un tempo [per effetto delle dottrine illuministiche], evidenti al popolo, e quel terrore che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro la natura malvagia [è l’idea derivante dalle dottrine settecentesche, specie di Rousseau] sarà ricondotto da una vera sapienza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine (l’onesto e il retto conversar cittadino), la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento (altra radice) che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza (fole, superbe perchè pretendono di fare dell’uomo un essere felice), basandosi sulle quali la probità dell’umanità (volgo) sta in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore.

Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine (par che ondeggi, quasi fosse ancora incandescente), trascorro la notte; esulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali (cui, le stelle) da lontano il mare fa da specchio, e [vedo] tutto intorno (in giro) di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E fissando quelle luci (che gli occhi a quelle luci appunto), che agli occhi (a lor) sembrano un punto (cioè piccolissime), mentre sono tanto grandi (immense) che un punto, rispetto a loro, sono in verità (veracemente, in opposizione a sembrano del v.168) la terra e il mare; alle quali (cui, le stelle) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta (globo) dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa (nodi quasi di stelle), che a noi pare quasi nebbia, a cui (mentre a essi: i nodi) non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero enella grandezza (mole), compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa (nebulosa); al pensiero mio cosa sembri allora, o genere umano (prole dell’uomo)? [la prole dell’uomo è nulla se confrontata alla vastità dei cieli].

E io, ricordando la tua condizione miserevole (il tuo stato quaggiù), di cui è testimonianza (fa segno) il suolo che io calpesto [cioè: ricordando che sei fango, polvere] e poi dall’altra parte [ricordando] che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice (signora) e scopo (fine) ultimo dell’universo (al Tutto), e [ricordando] quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori (autori) dell’universo, e conversavano spesso con piacere insieme agli uomini (co’ tuoi = coi mortali; fa riferimento alla credenza che gli dei scendessero e d’intrattenessero coi mortali) e che perfino il secolo attuale (la presente età), che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto ai saggi rinnovando dei sogni ormai ridicoli [col restaurare certe credenze religiose], quale sentimento o quale pensiero , infelice umanità (mortal prole infelice), assale alla fine il mio cuore? Non so se prevale il riso [per la tua stolta superbia] o la pietà [per la tua cecità, la tua miseria].

Come un piccolo frutto [similitudine], in autunno inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso dialtre forze (maturità senz’altra forza) fa precipitare a terra, e cadendo schiaccia, annienta e sommerge (copre) in un attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con grande fatica e lavoro e provviste che quella gente laboriosa (l’assidua gente, le formiche) avevano accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate;

allo stesso modo le tenebre ed una valanga (ruina) di ceneri, di rocce laviche (pomici) e di pietre, miste a ruscelli di lava (bollenti) piombando dall’alto, (dopo esser stata) scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose (utero tonante) del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, e di metalli e di sabbia (arena) infuocata, scendendo furiosa tra l’erba lungo il pendio della montagna, sconvolse (confuse), distrusse (infranse) e ricoprì (ricoperse) in pochi istanti le città che il mare lambiva là sulla costa:

per cui su quelle [città] ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte sopra quelle sepolte (a cui sgabello son le sepolte) e l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura cadute (prostrate mura).

La natura non nutre più attenzione, nè maggiore considerazione per la specie umana (seme dell’uom) che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda [cioè gli uomini sono meno numerosi delle formiche: è dunque una questione statistica.]

Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose (i popolati seggi) e il contadino (villanello) intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra arida e bruciata fa crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano (vetta fatal), che per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri averi (averi lor poverelli). E spesso il meschino trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione e sobbalzando più volte (per la paura), scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico (bollor) che si riversa dalle viscere (grembo) inesauribili del vulcano sul pendio sabbioso (arenoso dorso, richiama l’arida schiena del v.1), al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina.

E se lo vede avvicinarsi (il fronte lavico), o se mal sente gorgogliare nella profondità (nel cupo) del pozzo di casa l’acqua che ribollendo (fervendo),subito sveglia i figli e la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre (l’usato suo nido), e il piccolo campo, che fu l’unica difesa dalla fame, preda della lava (flutto rovente) che avanza crepitando, e inesorabile (inesorato) per sempre si distende sul campo e sulla casa.

Dopo un oblio di secoli (l’antica obblivion) torna alla luce del sole Pompei, cancellata dall’eruzione, come uno scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce all’aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto [che gli scavi hanno restituito alla luce] il visitatore (il pellegrino), in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima (bipartito giogo) del vulcano [il Vesuvio e il monte Somma] e il pennacchio di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno [della città]. E nell’orrore della notte che cela ogni cosa (secreta),per i vuoti teatri, per i templi devastati (deformi, che la lava ha intaccato, deturpato) e per le case distrutte (rotte), dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola sinistra che lugubre (atra) si aggiri per i palazzi vuoti (vòti palagi), corre il bagliore della lava mortale, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno.

Così indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni (del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti), la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa (verde), e anzi il suo cammino è così lungo ch’ella sembra star ferma. Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non vi fa caso (nol vede, non se ne avvede) e nonostante questo l’uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno.

E tu (apostrofe), flessibile (lenta – è attribuito da Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae) ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate [immagini simboliche, la ginestra che adorna le campagne rappresenta la virile rassegnazione del poeta e il fatto che allieti del suo profumo rappresenta il conforto che poeta e poesia arrecano nella deserta desolazione della vita], anche tu [come il poeta, similitudine: poeta = ginestra] presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava (“sotterraneo foco“) tornando al luogo già altra volta visitato (per questo già noto) stenderà il suo mantello avido di morte (avaro) sulle tenere selve di ginestre. E tu, senza opporre resistenza [perchè vana, inutile] piegherai [con dignità] il tuo capo innocente sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo piegato prima (riferito a capo v.306) inutilmente (“indarno“) dinnanzi all’oppressore futuro (in futuro è l’idea di un nemico sempre in agguato), ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove [nel deserto], tu sei nata e hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia, ma tanto meno insensata (inferma, nel senso di insicura, debole) dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe siano divenute immortali per merito tuo o del destino. Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto rivolto all’uomo.